Antonio La Grotta

Paradise Discotheque

photography | archival print/Hahnemuhle Paper | 2015/2021

variable sizes / ed. 5 + 2 a.p.

Paradise Discotheque, Third Place at Sony World Photography Awards 2015 Professional Competition / Architecture Category


Discotheques, the symbol of 80s and 90s hedonism, were fake marble temples adorned with Greek statues made of gypsum, futuristic spaces of gigantic size, large enough to contain the dreams of success, money, fun of thousands people. And then the dreams are gone, people disappeared and nightclubs became abandoned wreck, cement whaleslaid on large empty squares, places inhabited by echo and melancholy. The grass is growing in the crack, the Discobolus is hiding under a porch, priggish Venus lurks behind the bars. The Paradise Discotheque, contemporary monuments of our civilization, are waiting to be burned to the ground, and in this expectation made of vacuum, only the memory of a former glory remains.

C'era una volta un paese che ballava ai ritmi disco e house da un lato, e a quelli del liscio dall'altro. Mondi inconciliabili, che non si incontravano mai anche se fisicamente potevano stare a pochi chilometri di distanza l'uno dall'altro (e in più di un caso a pochi centimetri di distanza, quando si ritrovavano, genitori e figli, sotto lo stesso tetto, la mattina dopo, divisi da una bolla di legittima incomprensione, recentemente colmata per alcuni minuti dalla versione remix di “Far l'amore”).

L'uno pareva appartenere interamente al presente e immaginava di incarnare anche il futuro, l'altro pareva rappresentare un passato in via di estinzione, il ricordo di un tempo che fu.

Poi, quasi senza che nessuno se ne accorgesse, tutto (o quasi) è cambiato: i templi della disco sono caduti in disuso, sono divenuti ruderi, testimonianze di un recente passato dimenticato - come ogni cosa ai tempi della rete - troppo in fretta, mentre i manifesti delle stelle e stelline del liscio continuano a tappezzare i muri delle stesse strade che li accoglievano trent'anni fa.

Facile, oggi, sostenere che i primi erano edifici costruiti senza fondamenta, piante senza radici, mentre i secondi rappresentavano la sana anima popolare del paese, ben radicata nel territorio, e da queste considerazioni lanciarsi in stucchevoli sociologismi da bar, con inevitabili riferimenti alla differenza tra cultura di massa e cultura popolare (magari dimenticando l'abisso esistente tra la cultura disco degli anni Ottanta e quella house dei Novanta, badando ai luoghi del culto e non ai riti).

In realtà, le grandi discoteche erano chiaramente luoghi destinati all'uso immediato di una generazione, massimo due, costruiti ben sapendo che sarebbero scomparsi al cambiare dellegenerazioni e delle mode, oggetti di consumo tra mille altri in una delle province più ricche dell'Occidente. Erano, esattamente come i pezzi che si suonavano al loro interno, legate a un preciso momento, realmente parte di uno spirito del tempo, come i centri commerciali e i grandi parchi divertimenti che nascevano nello stesso periodo, certo non casualmente. (...)


© all rights reserved | 2022 | Antonio La Grotta

(placeholder)

(..) La Grotta affronta sistematicamente un'area geografica abbastanza ampia (il Nord Italia), campionando alcune emergenze particolarmente significative dal punto di vista architettonico o sociale, concentrandosi su un periodo ben definito di costruzione (solo il Woodpecker era stato realizzato già negli anni Sessanta), e su altrettanto definite tipologie architettoniche, utilizzando uno stile documentario rigoroso, che volutamente distacca l'autore dal suo soggetto, lo pone nella neutra condizione di testimone. Rovine sono, certo, ma La Grotta non vuole cedere al gusto romantico della rappresentazione della caducità delle cose del mondo; sono orrori kitsch di un'architettura senza qualità, neppure riscattata da qualche Venturi e Brown del XXI secolo, senza dubbio, ma anche a questo proposito La Grotta evita di addentrarsi in analisi più ampie, che richiederebbero altri approcci per essere credibili. La Grotta rivendica alla fotografia la capacità di portare alla luce ciò che – per diversi motivi – non si vede, non è sotto gli occhi di tutti, ciò che è nascosto o dimenticato, e che ha però una caratteristica essenziale: la possibilità di dare vita a una narrazione per immagini in grado di incuriosire, di suggerire un al di là dell'immagine, degno di essere conosciuto. L'immagine esaurisce le forme al proprio interno, ma lascia aperte le interpretazioni, così come il fotografo lascia aperto il campo visivo intorno agli edifici, facendo comunque emergere una parte del contesto nel quale essi sono immersi, suggerendo uno spazio ulteriore, da indagare o da immaginare a seconda dei desideri dello spettatore. (...)

da Remix di Walter Guadagnini

.